Premio Bologna in Lettere 2020 – I premi speciali del presidente delle giurie
Mi viene da piangere. Ho aspettato questo momento per tanto tempo e non avrei mai pensato che sarebbe accaduto così. Vorrei abbracciare qualcuno e non posso!
Ho appena saputo di aver vinto il premio speciale del presidente della giuria di Bologna in lettere dell’anno 2020.
Una cosa enorme, che non mi sarei mai immaginata potesse accadere. Come tutto quello che sta accadendo in questi giorni del resto.
Nella vita di “prima” sarebbe stato uno di quei giorni memorabili di cui ti ricorderai per sempre, in cui si esce a festeggiare e a bere e fare i falsi modesti con gli amici, massì cosa vuoi che sia, è solo, tipo, il premio più prestigioso che abbia mai vinto. Nella vita di “adesso” invece festeggerò bevendomi un bicchiere di vino da sola a casa e mi consolerò con i like su facebook nell’attesa di poter ricevere il premio e la gloria veri, per ora rimandati a ottobre/novembre.
Grazie Enzo Campi. Grazie a tutti quelli che continuano a leggere e a credere nel potere salvifico e sovversivo della poesia. Grazie a Battaglia Edizioni per avermi sostenuta nel partecipare a questo premio e, ah, già che mi ricordo, sono arrivate le nuove copie. 300. Le potete trovare in tutte le librerie, ma non andateci tutti insieme!
Neanche a dirlo, tutte le presentazioni di marzo e aprile sono saltate e Berlino me la fanno vedere col binocolo ovviamente.
Appena finita tutta questa storia, amici, faremo un reading lunghissimo e una festa lunghissima di settantadue ore e offrirò da bere a tutti quelli che passano e potremo tornare ad abbracciarci e balleremo e godremo della ritrovata gioia ancora più di prima, lo giuro.
#VeniamoDalBassoComeUnPugnoSottoIlMento
Tutti quelli che ho amato avevano qualcosa di biondo e almeno due cose blu,
residuo di un complesso di Elettra non superato del tutto bene.
Tutti quelli che ho amato mettevano i dischi
e a tutti gli si incarniva qualche unghia di tanto in tanto,
a dimostrazione che si trattava di esseri umani.
Tutte le volte che ho amato c’erano montagne
c’erano di mezzo dei bicchieri,
delle birre bevute per strada mentre si raggiungeva qualche luogo,
e briciole di tabacco sui bordi di qualche tavolino
o sulle custodie di qualche vecchio cd,
spesso era una compilation masterizzata con i titoli scritti a mano
in cui dentro c’era sempre almeno una canzone che mi faceva diventare triste,
un’altra per cui si diceva sempre “No, questa cambiala”.
Un’altra “Ah, bella questa! Lasciala!”.
Una volta ci sono stati anche dei polacchi a bordo della strada,
che vendevano le loro cianfrusaglie sotto il sole a picco,
quella volta che comprai la macchina da scrivere e la spilla col leone con scritto “Zoo Varsavia”.
L’ho persa il 10 di luglio alle 10:30,
un’ora prima di perdere anche te.
A tutti quelli che ho amato
vorrei dire:
Vi ho amati come il vento che taglia l’aria agli uccelli in picchiata
Senza freno alcuno
Se non la paura
Che arrivava sempre all’improvviso
Come per la strada di notte
Un cane che ti morde la faccia.
Bagnata la mia fonte delle vostre mani
Dalle stesse mani son sfuggita come acqua
Appare mai stupita eppure limpida nel suo scorrere caldo e cristallino.
Ci sono sempre state montagne
e c’era sempre una canzone di Mercedes Sosa ad un certo punto, non so come.
C’è sempre stato muschio e le foglie dei pioppi come medaglioni dorati
e qualche incomprensione su una frase o sul da farsi
sul futuro insieme
E domani sera.
E Dopo, alla fine.
Parecchi libri non restituiti,
E qualche maglietta di qualche gruppo rimasta,
nascosta al fondo di un cassetto.
Molte volte ho acceso la luce di notte e pensato a domani sera,
Molte volte i raggi del sole mi hanno portata sulla gomma dei palazzetti dello sport all’ora in cui fa male ricordare
e rammendare i vetri rotti correndo.
Volevo sentirmi chiamata “brava”
Volevo sapere che non sarei morta di peccato
Volevo ungere le parti di mediocrità che restavano incagliate tra i raggi
e fermavano la lotta per la perfezione.
Mentre leggevate i segni della mia bocca
e
Mai ho saputo vivere e morire
Come quando ho amato
Mai ho
Reso ciò che ho preso
Guadato il fiume del vostro respiro
Tenendomi salda con le unghie
Al pelo dell’orso vorace
Quando toccavo il basso e quando toccavo l’alto
Finchè ne sono stata capace.
Lo zen e l’arte di saper fare fiorire un ricordo
Il 1984 è, grazia a George Orwell, un anno tanto simbolico da essere entrato prepotentemente nel linguaggio comune. Meno comune è invece pensare a questa data come quella in cui venne alla luce il capolavoro degli Husker Du, Zen Arcade.
Un concept album composto da 23 canzoni che “sporcano” l’hardcore con cui si erano fatti conoscere nei precedenti dischi con influenze folk, psichedeliche, a tratti addirittura pop, il tutto per raccontare la storia di una giovane persona nell’America degli anni ’80: spaesata nel vedere come il mondo si stava trasformando sempre di più in un grande centro commerciale, arrabbiata nel sentire sulla propria pelle i soprusi che tante altre persone vivevano mentre altra gente ingrassava, nostalgica verso qualcosa che non sapeva neanche definire (esiste un termine bellissimo in tedesco per questa sensazione, “sensucht”).
Ecco, sarà forse perché si autodefinisce “hardcore zen” e ho fatto una banale associazione di idee, eppure leggendo Veniamo dal basso come un pugno sotto il mento di Alice Diacono, da ora VDBCUPSIM, ho provato sensazioni simili, una sorta di affinità d’intenti fra una giovane donna residente a Bologna e quei tre ragazzotti di Minneapolis.
Alice Diacono ha già pubblicato sul terzo numero di «Neutopia», Dopo la fine, un suo testo sul Centenario della Rivoluzione d’Ottobre ed è autrice di una raccolta di poesie, Il tempo di un bidè, e di un saggio sull’insurrezione comunista a seguito dell’attentato a Togliatti del ‘47, Santa Libera: storia di un’insurrezione armata.
VDBCUPSIM si compone di una serie di piccoli racconti, anzi di “romanzi condensati”, inframezzati dalle belle illustrazioni di Agnese Ugolini, in linea con la poetica dell’autrice. Questi racconti parlano di tantissime cose, ma il trait d’union è proprio l’autrice stessa, dato che sono letteralmente “pensieri” sulla sua vita, i suoi parenti, la politica, i suoi amori, il tutto narrato con una vena ironica che per davvero più di una volta strappa un sorriso.
È difficilissimo poter valutare criticamente un libro del genere, nella sua semplicità: a che pro trovarne i lati positivi o negativi quando si parla della sua vita?
La Diacono pesca a piene mani dal primo David Foster Wallace per la tendenza a rendere epico il realismo isterico e a scrivere lunghi ed estenuanti elenchi, così come da Miller nel creare una sorta di intimità fra lei e i lettori o le lettrici, ma anche dal linguaggio dei social network raccontandosi così nella maniera in cui tutte e tutti abbiamo imparato a parlare e pensare, e in una certa maniera rende finalmente grande il linguaggio piccolo di tutti i giorni, tanto che questo può essere davvero un libro per chiunque, dato che travalica le ormai vetuste distinzioni fra letteratura alta e bassa, fra realismo e fiction, fra prosa e poesia.
La Diacono pesca a piene mani dal primo David Foster Wallace per la tendenza a rendere epico il realismo isterico e a scrivere lunghi ed estenuanti elenchi, così come da Miller nel creare una sorta di intimità fra lei e i lettori o le lettrici.
Lei descrive il suo lavoro come “hardcore zen” e forse è davvero l’etichetta che più le si addice: veloce, graffiante e a prima vista semplice come il punk hardcore, profonda e allo stesso tempo leggera come i proverbi zen.
Malgrado l’ironia e l’aria di spensieratezza che permea tutto il libro, in ogni “racconto” si percepisce una sottile tensione che ci dice tanto del mondo in cui viviamo.
Quel senso di precarietà in una Bologna che si trasforma a suon di tigelle e manganello, quella Bologna che sgombera Xm24 dalla Bolognina per costruirci sopra uno studentato che si vanta di essere nel “cuore della ribellione della città”, la fragilità di tante persone che ci passano accanto, la rabbia per chi ha edificato il mondo che viviamo accompagnano in sottofondo le storie divertenti di Alice.
L’utero è mio e lo gestisco io è un’affermazione un po’ forte. Diciamo che è più lui a gestire me.
Si sorride, leggendo questo libro, ma a denti stretti, e improvvisamente si scorge un collegamento fra la sua vita e il suo saggio sul proletariato che in armi tenta di vendicare Togliatti e viene fermato dal PCI e dai socialisti.
Perché in entrambi i casi sorge spontanea una domanda: “E se fosse andata diversamente?”
Alcuni giorni agisco come se
non avessi paura del futuro.
Decido deliberatamente di far finta di essere tranquilla,
di non avere ansie e incertezze.
Mi aggiro per casa con movimenti dolci e lenti,
contemplando gli alberi fuori dalla finestra,
mentre sorseggio una tazza di tè verde
che faccio finta di farmi piacere perché dicono faccia bene
e aiuti a combattere i radicali liberi.
Alice Diacono, Antropocena
Ad accompagnare i testi c’è una playlist che indovina più di ogni altra cosa l’umore di un libro più complesso di quel che sembra a una prima lettura: c’è la provocatoria vitalità de Le Ragazze di Porta Venezia di Myss Keta, certo, ma anche i ritmi secchi e sferzanti, proprio come alcuni suoi versi, dei DAF e lo scambio dialettico fra il “pieno” e il “vuoto” dei Demdike Stare.
Eppure, continuo a pensare che nell’epopea di VDBCUPSIM ci sia la stessa tensione che animava gli Husker Du (o i Minutemen di Double Nickels On The Dime, altro album che mi è passato spesso per la mente leggendo questo libro): nel caos grigio di questo realismo capitalista, il tentativo di mettere un disordinato ordine partendo da se stessi/e e da ciò che ci sta più vicino.
Del resto, Husker Du in norvegese vuol dire “Ti ricordi?”
Luca Gringeri su Neutopia, 14 febbraio 2020
“L’utero è mio e lo gestisco io è un’affermazione un po’ forte. Diciamo che è più lui a gestire me”. Di Alice Diacono, scrittrice, e del suo primo libro “Veniamo dal basso come un pugno sotto il mento” (Battaglia edizioni), prendiamo in prestito una frase. Perché da sola, mentre se ne sta a galleggiare in una pagina nera con lo schizzo di Agnese Ugolini, basta per raccontare l’intera storia. Si direbbe quasi un manifesto: di lotte fatte per esistere o, meglio ancora, per sopravvivere. Di una generazione, i trentenni oggi, mal raccontata o mai raccontata. O peggio: raccontata da chi l’ha cresciuta e ora nega responsabilità sul dove l’ha portata. Diacono fa una cosa spiazzante: dice la verità. Usa poesie, riflessioni, post Facebook o fogli di appunti scritti in pausa pranzo al lavoro per fare la cronaca dei nostri giorni. Toglie i fronzoli, tiene le contraddizioni. Pulisce la poesia da tutto quel grado di irrealtà che ce la fa sentire sempre così inavvicinabile e ci regala un racconto del quotidiano. “Mi chiamo Alice Diacono, sono nata nel 1987”, si presenta. “Quando sono nata io, era tutto finito”. “Sono arriva giusto in tempo, per la caduta del muro di Berlino, l’ascesa dell’impero Fininvest, la fine della Prima Repubblica, Mani Pulite e Chernobyl. Che culo”. Dentro c’è tutto, ci siamo tutti (o almeno in tanti): ci sono i 20 anni, i 30, i sogni in eredità e la condanna di lavori che non sono mai abbastanza. C’è l’essere donna al tempo della riscoperta dei femminismi, il precariato della generazione senza articolo 18 e la politica mentre sinistre e destre vengono travolte dalle piazze. “Siamo nel periodo di passaggio in cui è meglio essere sfruttati che non essere sfruttati per niente. Il lavoro non c’è già più, ma abbiamo ancora bisogno di lavorare. Che culo”. E, non da ultimo, c’è il tentativo di “cavarsela nel nostro angolo di Antropocene” tra sensi di colpa e profezie di estinzione “di un pianeta che va a pezzi”. I luoghi che fanno da cornice sono tanti, anche se poi si torna sempre e solo a uno: la mamma Bologna, la città delle torri e dell’università. Quella che ti culla tra portici e colli, ma che quando deve darti da mangiare, proprio lei, schiacciata tra Airbnb, ristoranti e centri commerciali dove si fa l’aperitivo, non ce la fa.
Bifo, quel Franco Bifo Berardi, firma l’introduzione del libro e ad Alice Diacono dedica una frase che suona da benedizione: “A me viene quasi da piangere come soltanto capita leggendo i poeti veri”. Dice: “Solo la poesia” riesce ad accarezzare le ferite e quella di Diacono è “poesia in forma di prosa” e anche “prosa in forma di poesia”: “E questo libro fatto di frammenti d’anima è un concentrato poetico ad altissima tensione”. Insomma è tutto così vero dentro quelle righe, che si emozionano tutti. Anche Bifo. Perché l’autrice non finge che sia bello anche se difficile, che la corsa per riuscire sia già di per sé una bella passeggiata. Non ci sono grandi imprese, frasi posticce o metafore su battaglie che hanno un senso sempre e comunque. Farcela, fare quello che si può, è una sofferenza e lo è per tutti. E Diacono ce lo dice con una semplicità così disarmante che vorremmo chiudere il libro, trovarla e nascondere la testa tra le sue braccia. Perché l’ultimo incubo di una generazione ostaggio dei social network è fingere che “sia una figata”. “Mi sento in una grande fase di positività…”, scrive. “Per questo, non vedo l’ora di arrivare alla fase in cui ho già deluso tutti e tutto”. Fa questo Alice Diacono, prenderci nei nostri momenti peggiori o migliori e dire che sì, capita. E può anche essere normale non avere la più pallida idea di cosa fare. “Dedicato a me che sono stata licenziata con un messaggio su Whatsapp dall’Universtà”, scrive da un’altra parte. E già da solo il verso varrebbe la rabbia del biglietto.
In quella massa di pensieri che è “Veniamo dal basso”, Diacono ci porta nelle sue sedute di autocoscienza che chiama “riunioni di condominio” con le sue varie personalità. E ci accompagna nella ricerca del senso di tante lotte. Che spesso sembrano solo portarci alla fine delle energie, e invece sono anche il senso del tutto. “Scrivere è un atto comunitario, una testimonianza”, dice. “L’accordo di non belligeranza con se stessi (anche detto FELICITA’ nel linguaggio comune e per le anime semplici) non passa attraverso l’intelletto, ma attraverso qualcos’altro che è sia profondamente individuale che profondamente collettivo”. Cioè: “Lo scontro si è frammentato e dislocato in tutti i corpi: non quelli che occupano le riserve indiane che sono i centri sociali, o peggio ancora i partiti politici, ma quelli che stanno lì dove sono tutti i nostri amici andati a Londra o Berlino per realizzare i loro progetti di vita e lavorano da Starbucks nel tempo libero”. La lotta “si è spostata soprattutto su internet”, ma non possiamo prescindere dal fatto che noi siamo fatti di un corpo. E se pensiamo che questo corpo sia solo un pesante, dispendioso e anche un po’ troppo molliccio device da trascinare in giro, non riusciremo a trovare il punto di contatto con gli altri esseri umani”.
Il libro ruota intorno ad impulsi, bisogni e necessità. Ci sono amare, viaggiare e respirare. E poi naturalmente il lavoro. “Il pakistano” è la poesia che Diacono “dedica al cuoco pakistano-bengalese ignoto, contemporaneo della tradizione culinaria italiana”. Ovvero tutti gli stranieri che ha conosciuto lavorando nelle cucine delle migliori trattorie bolognesi. Scrivere è l’altra grande necessità. “Scrivere è inutile, scrivere è inutile, scrivere è inutile”, è il ritornello che ci rovescia addosso Diacono. “Morirai come quei poeti che hanno vissuto in un manicomio e nessuno li ha mai letti da vivi”, dice a se stessa. E si immagina che la sua poesia finisca sul “Facebook del futuro”, uno strumento in grado di leggere i pensieri degli utenti con tanto di tasto che chiederà “accetti o non accetti”. E se non accetti “ti tolgono il riscaldamento”. E allora “si formerà il movimento dissidente e avanguardista dei congelati che si distingueranno per la loro radicalità” da “quella sempliciotta degli infreddoliti, moderati, evidentemente collusi col sistema”. Uno scenario così apocalittico che viene da chiedersi terrorizzati se si è un congelato o un infreddolito. Quindi, in un panorama del genere, come si fa a farcela? Alice Diacono ci regala una soluzione. “Ce l’ho fatta non perché sono forte, ma perché sono debole. Non perché ho resistito e non mi sono spezzata, ma perché mi sono spezzata in tanti punti e in tante piccole parti, decine, centinaia di volte e adesso sono flessibile. Adesso mi posso piegare e accogliere il nutrimento della pioggia nella mia anima che è di terra”.
Martina Castigliani su Il Fatto Quotidiano, 11/02/2020
Ho conosciuto Giovanni Gerbi il 25 aprile del 2009 alle case occupate di Via Allende ad Asti. Raccontava di una storia strana, troppo grande per la nostra piccola città e troppo incredibile per non averla mai sentita. Ci doveva essere qualcosa sotto.
Decisi che volevo saperne di più e poi che volevo raccontarla anch’io e fare tutto il possibile per aiutarlo a diffonderla. Così cominciai a frequentare casa sua. Passavamo lunghi pomeriggi nella veranda che affaccia su una collina di Portacomaro, vicino Asti, a trascrivere la sua testimonianza, comunicati politici in cui compariva decine di volte la parola Capitale, articoli da mandare ai giornali e risposte pubbliche a lettere che non sarebbero mai state pubblicate. E’ in questo tempo che siamo diventati amici.
Com’è avere un amico partigiano che a 15 anni è stato catturato dai nazisti ed è riuscito a liberarsi e a tornare a combattere? Com’è avere un amico di 86 anni che non ha avuto paura di dire forte la verità anche dopo 40 anni tra le file del PCI e dopo aver fatto la scuola di partito a Mosca rompere con tutto e tutti? Com’è avere un amico coraggioso che è diventato anarchico a 80 anni dopo aver capito l’inganno in cui lui e i suoi compagni erano stati tratti?
E’ così: ogni volta che andavo lì con qualcuno di nuovo o gli presentavo un ragazzo lui mi si avvicinava all’orecchio e mi chiedeva: “Possiamo parlare davanti a lui? E’ un compagno?”.
E’ capire il vero significato della parola “compagno”: cum panis. Sapere con chi si può spezzare il pane e chi no.
Tutto questo mi ha insegnato Giovanni in quasi undici anni di amicizia. Insieme a un coraggio e una lucidità di pensiero, seppur a volte contraddittoria, che mi porterò per sempre nel cuore.
Oggi abbiamo perso un resistente, un compagno, un partigiano, ma soprattutto io ho perso un amico.
Addio Giovanni.
Questa foto è stata scattata da Susy, lo scorso settembre, l’ultimo con lui su a Santa Libera. Noi continueremo ad andarci e a ricordare la sua lotta, che è anche la nostra.
Un pubblico attento, divertito e colpito ha ascoltato sabato pomeriggio la presentazione a FuoriLuogo del libro «Veniamo dal basso come un pugno sotto il mento» (Battaglia Edizioni, Imola) dell’astigiana Alice Diacono. Presentata da Riccardo Crisci di FuoriLuogo, l’autrice ha interpretato alcuni dei suoi scritti.
Alice Diacono è nata ad Asti nel 1987 ma da tempo vive a Bologna. Ha vinto diversi premi dedicati alla poesia e ha ricevuto la borsa di studio per la prestigiosa scuola di scrittura Bottega Finzioni. Ha scritto per numerose riviste e webzine tra cui Doppiozero e Il Fatto Quotidiano.
«Veniamo dal basso come un pugno sotto il mento» è un libro composito, raccoglie testi poetici e racconti, inframezzati dai disegni di Agnese Ugolini. Ha una introduzione di prestigio, firmata da Franco «Bifo» Berardi.
Il libro è un memoir, un viaggio dal basso, che ha inizio dalla umile realtà della provincia piemontese, fino a raggiungere i luoghi e le città dove i sogni di una ragazza possono finalmente realizzarsi e dove fuggono le nuove generazioni: Asti, Bologna, Roma, Berlino, Amsterdam. I testi affrontano temi imprescindibili come il femminismo, l’amore, la felicità, la perdita e il potere delle parole come strumento necessario per riscoprire la dolcezza della vita, raccontati dalla prospettiva di una giovane scrittrice.
La Stampa, 31/12/2019
Se vi state chiedendo se anche io diventerò una di quegli autori che si autopromuovono e vi spammano continuamente la home con le immagini della propria opera come voi fate con i vostri figli, la risposta è sì! Con la differenza però che io non sto violando la privacy di un minore non cosenziente!
Evviva!
Allora ecco qua, una cosa importantissima di #VeniamoDalBassoComeUnPugnoSottoIlMento :
*⃣LA PLAYLIST*⃣
Questo libro infatti ha una colonna sonora che era di 65 brani ma, ahimè, l’editore mi ha costretto a sceglierne poco più di una ventina ( 😢😫😭) che vi accompagneranno durante la lettura e che vanno di pari passo con i testi, per il semplice fatto che è la musica che ho ascoltato negli ultimi anni e che ha impresso il ritmo e lo Zeitgeist su di loro in maniera indelebile.
🛸 — ENJOY!!! — 🔈🔉🔊
Plancton. Veniamo dal basso come un pugno sotto il mento, un libro di Alice Diacono
Bologna, 6 dic. – Nella puntata di oggi è venuta a trovarci in studio Alice Diacono per presentare il libro Veniamo dal basso come un pugno sotto il mento, edito da Battaglia edizione, una raccolta di poesie in prosa e prose poetiche con le illustrazioni di Agnese Ugolini, “un viaggio lungo dieci capitoli in cui si parla di: presa di coscienza della propria femminilità, respiro, piccioni, cadute dai pattini, buchi neri, incapacità di amare, Antropocene, Cazzocene, file alle Poste, cuochi pakistani, Gesù, precariato emotivo ed economico, sradicamenti, clamori, pensamenti, euforia e disforia, dinosauri, morti e rinascite.”
E poi con Francesca Mazza abbiamo parlato dello spettacolo Bestiario immaginato, in scena al Museo Casa Frabboni a San Pietro in Casale domenica 8 dicembre all’interno della stagione di Agorà.
E ancora Europavox Festival nel foyer del Teatro Comunale, il 6 e il 7 di dicembre